LE VITTIME
7.1 Una rivoluzione popolare senza popolo Il sostegno del popolo è un fattore chiave per il successo di ogni rivoluzione. Secondo Lenin:
Soltanto quando gli strati inferiori non vogliono più il passato e gli strati superiori non possono più vivere con il passato la rivoluzione può vincere[1]
In Cambogia il sostegno popolare non era sufficientemente radicato e questa fu una delle cause che contribuì al fallimento della rivoluzione.
Per capire uno dei più sanguinari regimi rivoluzionari del secolo scorso, va analizzata la sua società.
In Cambogia vi era una società rurale in cui l’ottantacinque per cento della popolazione viveva in campagna e di questa, il novanta per cento era costituito da proprietari terreni, che vivevano grazie ai propri raccolti. Agli esordi degli anni Settanta questa percentuale diminuì del dieci per cento e per gli studiosi l’aumentare dell’impoverimento della popolazione non era tale da poter scatenare un sentimento rivoluzionario nella classe contadina.
Tra il 1963, anno in cui il movimento del PCK prese forma e il 1970, inizio della guerra civile si contava appena qualche migliaio di sostenitori dei Khmer rossi e meno della loro metà erano armati. [2]
Il colpo di stato di Lon Nol, la susseguente rivolta popolare, l’invasione straniera e i bombardamenti, che causarono la pesante crisi economica, permise ai Khmer rossi di farsi strada tra la popolazione rurale. L’alleanza con Sihanouk fece da scudo agli uomini di Pol Pot per mascherare l’identità comunista, facilmente rifiutabile dal popolo e attirò molte reclute, in nome del Principe contro il traditore. Il PCK giocò sull’ignoranza dei contadini e sulla bravura di fare fronte comune con i sihanoukisti e gli intellettuali, usando con vaghezza termini astratti come Ângkar o Khmer Romdas, liberazione dello Stato.
Inoltre il programma politico del FUNK non fece mai riferimento all’esistenza di un partito comunista, il suo obiettivo era di:
Condurre il popolo al successo nella rivoluzione democratica della nazione, allo sterminio dell’imperialismo, del feudalesimo, capitalismo, a formare uno stato rivoluzionario in Cambogia [3]
I motivi che spinsero i Khmer rossi alla segretezza erano molteplici: innanzitutto era la tattica auspicata sin dal 1902 da Lenin, caratteristica di tutte le azioni intraprese dai partiti comunisti di tutto il mondo, ma anche e soprattutto perché, visto i precedenti scontri con Sihanouk, la segretezza permetteva cautela. Inoltre erano consapevoli del fatto di poter essere impopolari; decenni di lavoro di propaganda avevano attirato solo uno sparuto gruppo di uomini e donne di cultura media e qualche ex monaco che si era preparato intellettualmente alla rivoluzione. Quando la vita nel villaggio fu distrutta, prima dal colpo di Stato e poi dalla contaminazione della guerra in Vietnam, cercare reclute in nome del comunismo non era una scelta saggia, quindi il PCK nascose la propria rivolta dietro alla mobilitazione per il sostegno a Sihanouk, celando quindi il vero obiettivo della rivoluzione sociale[4]. Ottenuto il supporto, si doveva poi operare per cominciare la lotta di classe e il nazionalismo. I Khmer incentrarono la propaganda sul nemico Lon Nol e gli alleati, USA e Vietnam del Sud, spacciandoli per oppressori del popolo e conquistatori, e sulla lotta di classe dei lavoratori e contadini contro i feudatari e capitalisti. La reazione era passiva e indifferente in quanto i contadini non capivano il partito e le sue idee politiche a causa della ignoranza che regnava in Cambogia. Ed è proprio sfruttando l’ignoranza del popolo che i Khmer fanno nascere Ângkar.
Ed è in nome di Ângkar che si scatenò la presunta rivoluzione comunista per la salvezza del popolo cambogiana che si trasformò in un genocidio, o come più esattamente è meglio dire, in autogenocidio. 7.2 In Cambogia prima dei Khmer rossi La vita dei cambogiani, fino al 1975, ruotava attorno alla famiglia, molto diversa da quello che ne è la concezione occidentale: comprendeva una parentela molto allargata, legata a tutte le persone con lo stesso vincolo di sangue, tuttavia tra genitori e figli i rapporti sono caratterizzati da una contenuta affettuosità[5], erano molte unite, grazie alla famiglia si trovava l’aiuto per risolvere i problemi, si mettevano a disposizione le risorse a favore di ogni suo membro e importante era il ruolo dell’anziano, visto come il saggio cui chiedere consigli e dare ascolto. In famiglia ci si ritrovava sia per superare un lutto sia per festeggiare ricorrenze ed eventi positivi. In ogni casa cambogiana vivevano molte persone.
Nella campagna, dove viveva la maggioranza del popolo, si condivideva tutto: dal letto alla religione, al riso. Religione e cibo erano i due elementi base del cambogiano: il buddhismo, in cui si mischiavo tratti dell’animismo e induismo, è sempre stato importante per il popolo Khmer, che fin dagli arbori, era d’aiuto per superare crisi, carestie, pandemie e guerra. Ogni famiglia preservava un angolo della casa al culto e i wat, durante le feste buddhiste erano gremiti di fedele.
Il riso, infine rappresenta l’elemento fondamentale famiglia: per il contadino la terra era la vita, dai campi dipendeva la loro sopravvivenza e la vita seguiva il ciclo del raccolto del riso.
Non essendovi dei gruppi sociali ben distinti, la famiglia fungeva come unità di base per la vita economica e sociale. In questo stato di anarchia contadina la libertà personale era pressoché totale. Descrivendo la vita nei villaggi prima della guerra civile e dell’instaurazione del regime Khmer rosso i contadini ricordavano: “Facevamo quello che volevamo ed eravamo felici perché nessuno ci diceva cosa fare.”[6]
7.3. La pulizia sociale e lo sterminio degli intelettuali Questo sistema sociale fu spazzato dal 17 aprile 1975, quando i Khmer rossi salirono al potere per instaurare il loro regime, per creare una Cambogia nuova.
Inizia una rivoluzione che provocherà un mutamento demografico e sociale all’interno dello Stato.
Per capire come la vita nel Kampuchea Democratico cambiò e diventò insostenibile, importanti sono le testimonianze di due cambogiani sopravvissuti allo sterminio, viste sotto due visioni diverse: da quella di Bovannrith Tho Nguon, un cittadino della capitale e da Ong Thong Hoeung, uno studente Khmer che dalla Francia era un sostenitore della causa comunista e che volle ritornare in patria per vedere con i suoi occhi il successo della rivoluzione in cui aveva creduto.
Ricordò Bovannrith Tho Nguon, sopravissuto alla deportazione nei campi di riso e successivamente trasferitosi in Italia, dove si laureò in Medicina e tuttora vive, nella città di Biella esercitano come medico virologo:
Con i megafoni continuarono ad ordinare che dovevamo abbandonare immediatamente la città per sfuggire ai bombarndamenti, […] dovevamo dirigersi verso l’ Ângkar.[..] Ma cos’era l’Ângkar?[…] Pensavamo che da un momento all’altro avremo incontrato un comitato militare, un potere politico, con persone in carne ed ossa. Imvece l’ Ângkar non si mostrò mai per come l’avevamo immaginato. Seppi poi che i Khmer rossi avevano camuffato con la parola Ângkar […] un’entità metafisica e inafferabbile[7]
Dalla capitale era stato deportato verso sud-est nella provincia di Prey Svang la prima volta, per poi essere trasferito a Battambang nel nord-ovest, dove venne portato nel villaggio di Kokdong dai dirigenti Khmer rossi, un villaggio in cui c’erano numerosissime risaie da coltivare. Il Battambang era la zona più produttiva dello stato, che sfamava tutta la nazione e permetteva di esportare il surplus.
Sia qui che a Prey Svang le condizioni igieniche erano terribili ma fu a Battambang, dopo che i leader Khmer si erano organizzati politicamente, che cominciò a partecipare alle riunioni, di autocritica, mirate al miglioramento della persona.
Ricordò alcune confessioni:
Ho abbandonato il mio lavoro troppo a lungo e questo è riprovevole e mi vergogno davanti ai miei compagni e davanti alla gloriosa Ângkar
Sono stato negligente, non ho avuto cura dei miei attrezzi da lavoro e ho causato un danno ad Ângkar. I lavori per costruire la diga potevano proseguire più velocemente. Chiedo scusa a tutti[8]
Non si sapeva che fine facevano i pentiti, sparivano e quindi per non essere accusati al posto di altri, cominciò il terrore, tutti cominciarono a sospettare di tutti, tutti erano pronti a tradire tutti per non essere giudicati dalla orwelliana Ângkar, che tutto sapeva.
I morti cadevano a pioggia, dalla fame, dalla dissenteria e uccisi dall’organizzazione, si faceva prima a contare i vivi che i morti.
La morte era diventata cosi frequente che ci eravamo abituati a considerarla preferibile a quella vita di sofferenze e privazioni[9]
Una volta alla settimana i giovani dovevano partecipare alle lezioni politiche tenute dai capi Khmer in cui si parlava della minaccia che veniva dagli USA, dalla CIA e anche del Vietnam.
Venne insegnato a non fidarsi del vicino, di colui che lavorava accanto nella risaia, nella costruzione della diga, che stava seduto accanto per mangiare o disteso per dormire perché in lui poteva nascondersi un infiltrato.
In questi convegni si imparava a diventare rivoluzionario, il messaggio era chiaro:
La nuova Cambogia sarà costruita dai giovanissimi che non hanno avuto il tempo e l’occasione di non essere corrotti dalla vecchia società[10]
Qui vi era il progetto dei Khmer rossi: una nuova società, la società dell’anno zero, di coloro che potevano essere plasmati a loro volontà, che non erano cresciuti con i sentimenti d’amore per i propri genitori, la famiglia adesso è la Cambogia, sono tutti parte di una nuova famiglia. Vanno sterminati tutti quelli che non possono essere rieducati.
La popolazione antica o il nuovo popolo Khmer doveva essere riformato. Tutti i cambogiani dai tredici anni d’età in su venivano usati per lavorare, e vennero distinti nelle tre forze: i giovani erano considerati la “prima forza” la punta di diamante della produzione, che possono fare qualsiasi tipo di lavoro; la “seconda forza” era formata dagli adulti, da coloro che erano sposati con figli, che lavorano al pari degli altri, soltanto le donne dal settimo mese di gravidanza o con un figlio sotto l’anno d’età erano esonarate dai lavori più duri; infine vi era la “terza forza”, cioè le persone anziane e i vecchi ai quali erano affidati lavori di riparazione o tessitura, mentre alle anziane era chiesto di “educare lo spirito rivoluzionario dei bambinetti con racconti eroici”[11]
Per capire come era duro l’indottrinamento Bovannrith Tho Nguon, ricordò, come dopo aver perso tutta la sua famiglia, aveva dovuto trasferire il fratellino nell’orfanotrofio del campo, e qui ai bambini veniva fatta ripetere questa filastrocca:
“Amiamo senza fine l’Ângkar, Grazie all’Ângkar noi viviamo e cresciamo in buona salute, Impariamo a conoscere tutto ciò che ci circonda.”[12]
Questo è il ricordo di un cambogiano che è stato vittima inconsapevole di un progetto ambizioso. La testimonianza che segue evidenzia il paradosso del progetto dei Khmer rossi, che ha trasformato in vittima un proprio seguace, un proprio sostenitore, e come lui a migliaia, ma che ben pochi hanno avuto la fortuna di poter raccontare.
È il caso di Ong Thong Hoeung, uno studente cambogiano che durante gli anni in cui, in Francia si stavano confezionando i moti rivoluzionari, era parte attiva di questi e da Parigi, tramite le comunicazioni pervenute dal FUNK era entusiasta della rivoluzione.
Tutte le sue convinzioni furono spazzate vie appena tocca il suolo natio.
Al suo arrivo a Phnom Penh ebbe un brutto presagio: appena uscito da Pochentong[13], si aspettava di ammirare le opere realizzate dalla rivoluzione, tanto reclamizzate dai bollettini del FUNK a Parigi, ma dal momento in cui mise piede a Phnom Penh vedi solo uomini vestiti di nero e i loro volti freddi:
Le persone che sono qui non sembrano esseri umani, si direbbero automi venuti da lontano.[…] Fisicamente mi assomigliano, ci assomigliano. Hanno la fisionomia asiatica cambogiana. Ma non è che apparenza; per il resto non hanno nulla in comune con noi” [14]
Arrivò all’istituto tecnologico dell’amicizia Khmero-sovietica, denominata Kar 15, in cui ritrovò i suoi amici rientrati appena tre mesi prima, ma già magri come chiodi, vestiti luridi, denti neri o addirittura assenti.
Era costernato: prima di uscire dall’aeroporto era fiero della rivoluzione, amava i compagni Khmer rossi che avevano liberato il popolo dai bombardamenti dei B52, ma al primo passo mosso nella capitale si ritrovò in un incubo: persone che fino a quel momento erano suoi amici, lo trattarono come un prigioniero. Anche Bounnie, la moglie rientrata prima di lui, lo evita per paura di Ângkar.
Nel dialogo che ricorda nel suo libro tra i due vi è un passaggio drammatico:
“ (Ong) Come ti senti? (Bounnie) Mi sforzo di costruirmi”[15]
La paura e l’angoscia che Ângkar genera nel cambogiano, lo annullava come individuo e per sopravvivere si adeguava alla sua volontà pur non sapendo con chi concretamente aveva a che fare.
Nel Kar 15, primo campo di smistamento, passarono gli intellettuali che il regime volle rimpatriare, cominciarono a essere rieducati. In un’intervista Long Visalo, un intellettuale di rientro in patria, ricordò come furono costretti a piantare riso su un campo da basket. I Khmer rossi non vollero che fosse smantellato ma ricoperto e trasformato in risaia. Il campo da pallacanestro era dove” la borghesia si diverte, un simbolo che va eliminato.”[16]
7.4 La vita nei campi di rieducazione Il kar 15 era un campo formato da intellettuali, in cui le condizioni erano estreme, ma rispecchiava la vita che si faceva in tutti i campi di lavoro, cantieri o fabbriche: dalle cinque del mattino alle nove e mezza di sera si lavorava con piccoli intervalli solo per pranzo e cena e si concludeva la giornata con la seduta di critica e autocritica
Indispensabile era comportarsi da rivoluzionario,[…] bisognava essere “come il popolo” per non essere tacciati di feudalesimo, individualismo, di materialismo, di essere considerati reazionari o di appartenere a una corrente controrivoluzionaria o ancora comportarsi da piccoli borghesi[17]
Bisognava denunciare chi possedeva più del popolo, ciascuno doveva sorvegliare gli altri e durante le riunioni svelare chi si comportava in maniera non conforme alla vita del partito: chi sorrideva pensava alla sua felicità e non si curava dei sacrifici dei combattenti, chi chiedeva aiuto dimostrava di non possedere spirito di resistenza.
La riunione quotidiana durava un’ora e mezza, mentre quella di approfondimento, che si teneva ogni tre giorni, si protraeva fino a notte fonda: durante queste ognuno del campo doveva raccontare cosa aveva fatto di positivo e di negativo, in cui poteva criticare un compagno se questo non aveva fatto quello che Ângkar richiedeva. Vi erano poi i veak sekso, i seminari politici bimestrali, dalla durata di tre giorni. Erano riunioni in cui si parlava della rivoluzione alle quali intervenivano i leader, in altre si stendeva l’autobiografia dei contadini, redatte secondo disposizioni precise. Infine venivano fatti i moha sannibath, le assemblea generali a cadenze annuali, che seguivano lo stesso iter dei veak sekso.[18]
Anch’egli cambiò, durante la seconda evacuazione, campo, venendo trasferito da sud est Phnom Penh in una fabbrica di Khbal Thnâl, per poi ritornare in una risaia a sud est dello Stato , ad Angkor Chey, in cui vennero inasprite le regole: raccogliere la frutta che andava marcia per terra costava la vita, per citare una regola, era vietato parlare e la dose di riso venne dimezzata. In questo clima da incubo un deportato, Chang Séng Nong riuscì a fuggire. Ângkar, dopo questo fatto, tramite i dirigenti dei campi aumentò la guerra psicologica, che assieme alla fame e alla stanchezza, rendeva gli internati facilmente plagiabili; il messaggio fu che l’evaso altro non era che una spia dell’intelligence americana, e bisognava diffidare del vicino perché anche egli potrebbe essere un agente della CIA pronto a tradirlo e l’unico modo per essere e restare puri era quello di continuare a confessare i propri peccati e soprattutto, quelli altrui all’organizzazione, e visto che funzionava la tecnica, si diminuì ancora la razione di riso.
Arrivati a questo punto, come ricordò Ong Thong Hoeung:
Nessuno conosce più nessuno,[…] ognuno è un potenziale nemico, un traditore da abbattere,[…] facciamo ciò che ci chiede l’Ângkar, come bestie da soma. Eccoci trasformati in animali[19]
7.5 La pulizia etnica Per arrivare alla creazione del popolo nuovo della Kampuchea non si doveva purificarlo dalla contaminazione del germe capitalistica, bisognava eliminare chi non era un cambogiano vero, chi aveva sangue straniero e si continuò l’opera di pulizia etnica già cominciata durante la guerra civile.
7.5.1 I musulmani Cham I Cham erano un popolo, la cui patria d’origine, il Champa, uno dei primi stati hindo-buddhista, nel 1471 d.C. passò sotto il dominio vietnamita, anche se la gran parte della etnia emigrò in Cambogia, convertendosi all’Islam nel 1642 e concentrandosi in una sessantina di villaggi nelle attuali province di Pursat e Kompong Cham, rispettivamente a ovest e a est del Mekong, arrivando fino al confine nord di Phnom Penh, dove tra il 1790 e il 1817 eressero la prima moschea. Si stabilirono anche in altre zone del paese, in particolare nei distretti meridionali di Takeo e di Kompot, anche se fu a Kompong Cham, precisamente nel distretto di Krauchhmar in cui formarono grandi villaggi di agricoltori, pescatori e tessitori e gestivano il monopolio del commercio del bestiame con la regione di Phnom Penh.
I musulmani cambogiani d’origine Cham, tutti sunniti, erano molto praticanti: erano più di trentatremila ed eressero quattrocento moschea e almeno seimila di loro fecero il Ḥajj[20].
I Cham dichiararono di aver avuto problemi di discriminazione con i cambogiani ancora prima della guerra civile, anche se in molte zone l’integrazione era totale, arrivando a celebrare matrimoni misti tra le due etnie, e grazie a questa simbiosi i Cham poterono risolvere alcuni problemi, su tutti diminuì del venti per cento la mortalità infantile. Questa nuova etnia fu chiamata definita Khmer-islams.[21]
Essenzialmente rurali, nessun Cham partecipò all’Assemblea nazionale della Cambogia nel 1960, ma quando gli statunitensi inviarono le truppe nel Vietnam, Sihanouk convocò una conferenza a Phnom Penh di tutti i popoli e delle minoranze, le quali beneficiarono di aiuti voluti espressamente da Lon Nol e dal Ministro degli “Affari Misteriosi” Les Kames di origine Cham. Quando, nei primi anni, la guerra civile arrivò nel suo apice, a Les Kames fu affidato un plotone che sterminò sistematicamente tutti i Khmer rossi del FUNK che occupavano i villaggi nella zona di competenza del Ministro.
Tuttavia erano molti i Cham che volevano sposare la causa comunista.
La zona sud fu teatro di una prima rappresaglia contro i Cham, furono i primi a essere costretti ad abbandonare l’Islam. Tra il 1972 e il 1973 i Khmer rossi occuparono la zona di Treang e cominciarono le prime deportazioni. Furono portati ad Angkor Chey, a Kampot, dove presero il nome di moulthann phñoe, popolo di base decaduto, facendoli diventare di fatto l’archetipo dei deportati.
Pol Pot, che nel 1973 aveva il suo quartiere generale nella zona nord comandata da Ke Pauk, diramò un documento in cui dichiarò che tutti i lavoratori di tutte le etnie sono lavoratori come quelli del Kampuchea democratico, eccezione fatta per i Khmer-islams, che poi non stanno così male
Non era vero che tra i Cham non ci fossero contadini, questa voleva essere una dichiarazione razzista fondata sullo stereotipo Cham uguale piccolo pescatore indipendente benestante. Avevano una lingua e una cultura diversa, i grandi villaggi, ricchi grazie alle loro risorse ed erano una minaccia al progetto comunista delle grandi cooperative.
In un altro documento del leader Khmer rosso nel febbraio 1974 scattò l’ordine di dislocare i Khmer-islams e di fare in uno di dividerli in piccoli gruppi per evitare che si riorganizzassero.
Da una testimonianza di Abdul-Gaffar Peang Meth:
Tutti i pescatori Khmer musulmani erano obbligati a dichiarare il pescato alle cooperative comuniste e venderlo a un prezzo basso e riacquistare il pesce a un prezzo molto più elevato. Quando i pescatori in una manifestazione si ribellarono, il 23 febbraio 1974, i comunisti prima li minacciarono, poi spararono tra la folla, uccidendo più di cento dimostranti.[22]
In settembre Son Man, uno dei pochi Cham a diventare un dirigente del PCK fu espulso dal partito ed esiliato in un villaggio. Furono arrestati anche settantuno comunisti Cham e per questo motivo, come dichiarò James Fenton, giornalista inglese, dai Khmer rossi si staccò un gruppo che fu definito Khmer Saor.
I Khmer Saor, o Khmer bianchi si rifugiarono nelle forse, i cui leader erano ufficiali comunisti musulmani Cham che appoggiarono Sihanouk contro le idee rivoluzionarie della collettivizzazione della proprietà e in alcune regioni furono scambiati per guerriglieri pro-vietnamiti, la cui vita però fu breve e nel corso del 1975 furono tutti sterminati.[23]
François Pounchaud, nel suo libro, “Cambodia:Year Zero”, riportò la testimonianza di un Cham quarantenne in cui ricordava l’episodio in cui suoi due fratelli arruolati nelle file del PCK, fecero visita al padre dopo la vittoria del 1975:
Una notte i due figli tornarono a far visita al loro padre e raccontarono le loro gesta; avevano ucciso dei Khmer, avevano mangiato carne di maiale e liberato il paese “vieni con noi”- dissero – “a seguire la rivoluzione.” L’uomo anziano non disse una parola, ma uscì con un coltello e uccise i suoi figli. Coprì i loro cadaveri con un grande telo nero e avvertì i suoi vicini: Venite a vedere, ho ucciso dei nemici! Quando videro i loro volti i suoi amici dissero: Ma sono i tuoi figli! No, rispose il padre, sono dei nemici, nemici del nostro popolo e della nostra religione, così gli ho uccisi![24]
Il mattino seguente, truppe dei Khmer rossi circondarono il villaggio e fecero una strage.
Per il comandante Khmer rosso Ly Math, le cose andarono diversamente; i Khmer rossi stavano raccogliendo i corani e tagliando i capelli alle donne quando i Cham si sono ribellati e i soldati hanno dovuto sparare tra la folla, che rispose brandendo pugnali e machete, facendo una dozzina di morte tra i Khmer rossi. I soldati allora spararono ad altezza d’uomo uccidendo ed evacuando i superstiti. Cambiarono anche il nome a questo villaggio, da Koh Phol (isola produttiva) a Kho Phes (isola di Phes). Stesso copione fu usato per il vicino villaggio di Khleang Svay, dove, dopo l’uccisione di un soldato Khmer rosso, gli uomini in nero massacrarono il sessanta per cento degli abitanti.
I deportati furono spostati a Tbaung Khmun: quelli che erano stati alleati con i Khmer rossi ora sono nemici, razza da eliminare. Trattati nelle peggiori condizioni, in luoghi in cui la vita era già un inferno. I Cham tentarono di ribellarsi e uccisero ventotto soldati Khmer. Da quel giorno si decise di uccidere un centinaio di Cham al giorno, fino alla pulizia totale.
Nella zona nord, la zona meno abitata dai musulmani, questi erano essenzialmente riuniti attorno alle piantagione di Chamcar Loeu e Baray nella provincia di Kompong Thom: nel 1975 si contavano duemila famiglie ripartite in sette villaggi. Le uniche notizie che si ebbero sulla loro sorte furono ottenute grazie a delle testimonianze raccolte dal nuovo governo della Repubblica Popolare di Kampuchea del 1983, secondo le quali durante le evacuazioni dell’aprile e dell’ottobre, essendo accusati di incarnare lo spirito vietnamita, furono sterminati quasi tutti durante l’esodo e quei pochi rimasti, perirono una volta arrivati nei villaggi assegnati.
Nella zona sud-ovest vivevano quattro comunità Cham, nei pressi delle risaie di Takeo, Kampot, Kou Thom e nelle vicinanze di Phnom Penh.
A Takeo, patria del nonno Mok, venne utilizzato per la prima volta il termine “decaduto” per differenziare i cittadini Cham dagli abitanti di origine Khmer.
Dopo il 17 aprile 1975 a questi decaduti vennero tolti tutti i beni, vennero messi a lavorare giorno e notte, distrutte le moschee e vietati tutti i simboli della loro tradizione, dai riti religiosi alla lingua. Qualche famiglia riuscì a fuggire in Vietnam, risalendo il Mekong, mentre per le altre la sorte non fu diversa degli altri musulmani: portati a Battambang tra i trentacinquemila morti totali vi erano i ventimila Cham.[25]
7.5.2 I cambogiani di origine cinese I cambogiani d’origine cinese negli anni Sessanta erano oltre quattrocentomila, vivevano in zone rurali, la maggior parte della quale commercianti, ma tra loro vi erano molti usurai, costretti fin dai primi bombardamenti americani a spostarsi in massa nella capitale; quando cominciò la prima evacuazione furono fatti rientrare nei loro villaggi d’origine, a est e nel sud-ovest, per poi esseri ricollocati nel nord-ovest durante il secondo esodo.
Pur non essendo vittime di una purificazione razziale, furono costretti a lavorare più duramente e in condizioni peggiori rispetto ai contadini, per il semplice fatto di essere i nuovi cittadini. Venivano anche giudicati in maniera più dura e alla minima infrazione del regolamento di Ângkar, questa si pagava con la vita. Stephen Heder, accademico di politica internazionale nella facoltà di scienze politiche all’University of London stimò che, tra il 1976 e il 1978, tra i sino-Khmer i morti furono, tra giustiziati e vinti dalla fame e dalle malattie, oltre centocinquantamila.
I bambini, dalla testimonianza di Ang Ngeak Teang, allora di dieci anni, erano separati dalla famiglia e iniziati da giovani insegnati all’alfabeto Khmer e indottrinati con i moti rivoluzionari, ma non erano discriminati per la loro origine ma sempre e solo per il fatto di essere cittadini della capitale. [26]
I sino-Khmer rimasero anche loro spiazzati dal comportamento che i rivoluzionari, una volta liberata la Cambogia da Lon Nol preservarono ai cittadini. Hun, un cambogiano d’origine cinese di Battambang, più precisamente di Pailin, ricordò come il 17 aprile, saputo della liberazione di Phnom Penh, il villaggio si stava preparando con bacchetti per accogliere i vincitori. Arrivarono dodici giorni dopo ma la città fu evacuata con la forza, i cinesi furono separati dai cittadini Khmer, i cittadini di base e vennero confinati nei “villaggi cinesi”, pratica che si ripeté in tutti i paesi della Cambogia.
Dalla testimonianza di uno studente che scappò attraverso la regione dello Siem Reap in Thailandia, si evince che fu nel 1977 che cominciarono le esecuzioni dei capitalisti, degli studenti, dei bonzi, dei cinesi e dei vietnamiti anche se cittadini cambogiani, ma, come emerse dalla grande maggioranze di altre testimonianze, lo sterminio cinese non fu dettata dal pregiudizio razziale, ma in quanto vennero accomunati ai decaduti di Phnom Penh, giustiziati quindi per motivi di sfondo socio-geografico e non razziale.[27]
Una curiosità: forse quello che ha spinto i Khmer rossi a non farne una questione di razza è stato perché il loro leader, il pallido Sâr, deve la natura del suo nome alla sua origine cinese.
7.5.3 L’epurazione dei Khmero- vietnamiti e la svolta del PCK Il PCK, nel settembre del 1975, espulse dal paese centocinquantamila cambogiani vietnamiti, costringendoli al ritorno alla terra d’origine ma tanti furono uccisi durante il rimpatrio. A questa decisione seguì l’assassinio di sessantacinque Khmero-vietnamiti a Kampot, durante il tentativo di fuga in Thailandia. Tuttavia quasi duemila di loro restarono in Kampuchea in quanto sposati a donne o uomini del Kampuchea.
All’inizio del 1976 scattano una serie di ordinanze folli da parte dei Khmer rossi.
Innanzitutto scattò il divieto di abbandonare lo Stato, e iniziarono le prime uccisioni, anche se non era ancora possibile considerarla una mattanza scatenata da odi razziali.
Esistevano a dire il vero delle direttive diramate lo stesso anno che ordinavano ai cambogiani maschi di uccidere le loro moglie vietnamite e se avessero mostrato pietà e dolore dopo l’uccisione, la stessa sorte sarebbe toccata a loro e ai figli, tuttavia i funzionari non le applicarono.
Venne però applicata una direttiva che prevedeva che tutti i responsabili Khmer rossi locali dovevano individuare e arrestare i Khmero-vietnamiti, ucciderli e seppellirli appena fuori i villaggi. Il massacro più brutale si verificò nel maggio del 1977 nel villaggio di Kompong Chhnang in cui tra adulti e bambini, i giustiziati furono centoventi.
Un po’ alla volta, da ovest a nord-est tutti i Khmero-vietnamiti furono arrestati e uccisi.[28]
Le ragioni del massacro dei vietnamiti vanno ricondotte a questioni storiche.
Erano comunemente chiamati con il nome di Khmer krom, il nome con cui si identificavano gli abitanti del Kampuchea krom, Kampuchea meridionale, una regione che era stata annessa al Vietnam, i cui abitanti prima si erano schierati con i francesi durante la prima guerra d’Indocina tra il 1946 e il 1954, e poi assieme ai berretti verdi americani della Mike Force durante la guerra del Vietnam. [29]
Tra il 1975 e il 1977 i massacri dei Khmer krom furono imputabili totalmente alle forze Khmer del sud-ovest comandate da Ta Mok, che a causa a questi massacri venne anche soprannominato il “nonno macellaio” e fu la scellerata decisione di voler riconquistare la Kampuchea Krom una delle cause dalla guerra con i vietnamiti, che portò alla fine del regime dei Khmer rossi.[30]
Durante l’epurazione dei vietnamiti, il 9 settembre 1976, morì Mao Tze-tung e una settimana più tardi Pol Pot annunciò la matrice marxita-leninista di Ângkar. L’esistenza del PCK stava per essere resa pubblica, era da troppo tempo che i cinesi premevano per questo e l’undici ottobre finalmente, con una sobria commemorazione pubblica venne festeggiato il sedicesimo anniversario della sua fondazione. Inoltre Pol Pot annunciò che doveva abbandonare il ruolo di leader per gravi motivi di salute e che al suo posto gli sarebbe subentrato Nuon Chea, quattro settimane più tardi anche Ieng Sary sarebbe uscito dalla ribalta. La notizia fece felice Lê Duẩn che considerava i due cognati elementi negativi mentre piaceva la figura di Nuon Chea, e andò ad avvisare l’alleato sovietico Leonid Il'ič Brežnev, che il 14 ottobre 1964 era diventato leader del PCUS, il quale anch’egli era soddisfatto perché ora, a loro vedere, la strada per lo sviluppo democratico del Kampuchea era spianata. La notizia era falsa, servì solo a Pol Pot per capire quanto poco informati fossero i vietnamiti sulla questione dei vicini.[31]
Nello stesso giorno Hua Guofeng, il successore provvisorio di Mao Tze-tung fece arrestare Jianf Qing, la vedova del leader appena scomparso assieme a Zhang Chunqiao Yao Wenyuan e Wang Hongwen, in quanto stavano preparando un colpo di Stato che avrebbe portato al comando la donna.[32]
La notizia non era un fatto positivo per la Cambogia, serviva quindi andare a confermare l’amicizia dell’unico alleato potente dei Khmer rossi: cosa che avvenne durante la visita a Pechino a Hua Guofeng fu nel novembre del 1976, di Pol Pot, Vorn Vet, Ieng Sary, Rous Nhim e Douen. Il nuovo governo cinese chiese a Pol Pot di riesumare il Principe Sihanouk, giacché ora serviva ciò che simboleggiava, l’unità del paese, perché la follia radicale dei primi due anni di governo Khmer rosso stava preoccupando Pechino.[33]
Nello stesso mese si tenne il Plenum annuale del PCK in cui si decise di dover cominciare i preparativi per una guerra, sia di guerriglia che convenzionale contro il Vietnam, anche se l’attacco non era imminente.
Son Sen, ministro della difesa dichiarò:
In un primo tempo il Vietnam era un nostro amico, ma un amico dei nostri problemi. Ora è diventato il nostro nemico. Prima non capivamo bene i loro piani – ma ora sappiamo con certezza che hanno predisposto gruppi di traditori per combattere contro di noi[34]
Le epurazioni continuarono e si moltiplicarono. I sospetti traditori, che si credevano traditori a favori del Vietnam, venivano inviati nelle prigioni per essere interrogati.[35]
7.6 Le prigioni e i killing fields: l’esempio di Tuol Sleng e Choeung Ek Per spiegare cos’era Tuol Sleng basterebbe leggerne il suo regolamento:
1.Devi rispondere attenendoti alla mia domanda. Non tergiversare; 2. Non cercare di occultare i fatti adducendo pretesti vari, ti è severamente vietato contestarmi; 3. Non fare il finto tonto, perché sei un controrivoluzionario;
4. Devi rispondere immediatamente alle mie domande senza sprecare tempo a riflettere; 5. Non parlarmi delle tue piccole azioni immorali o dell'essenza della rivoluzione: 6. Non devi assolutamente piangere mentre ricevi l'elettroshock o le frustate; 7. Non fare nulla, siediti e attendi i miei ordini. Se non ci sono ordini, rimani in silenzio. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi eseguire immediatamente senza protestare;8. Non inventare scuse sulla Kampuchea Krom per nascondere i tuoi segreti da traditore:9. Se non segui tutte le regole succitate, riceverai moltissime frustate con il cavo elettrico: 10. Se disubbidirai ad una sola delle mie regole riceverai dieci frustate o cinque scosse elettriche[36]
Tuol Sleng o S-21, dove S era sala e 21 il codice per il santebal, la contrazione di due parole Khmer: santisuk, sicurezza e norkorbal polizia[37].
Fu l’evoluzione del M-13, un centro di detenzione creato dai Khmer rossi a nord di Phnom Penh, ancora prima del 17 aprile 1975 che permetteva ai comunisti di eliminare i soggetti giudicati inaffidabili. Il direttore rimase sempre lo stesso: Duch, al secolo Kang Kek Iew.
Le celle del S-21 erano scavate nella terra e una semplice inferriata alla loro imboccatura impediva ai prigionieri di fuggire, in attesa di essere interrogati.
Il ricordo di Houy, un carceriere:
Mettavamo le manette ai prigionieri, li bendavamo e li spingevamo sui camion. Li prendavamo a calci. Cadevano nel cassone e chiudevamo bene il telo. Io non dovevo sedermi sul camion con loro, perché erano dei traditori: ci avrebbero potuto contaminare. Allora mi appendevo alla porta della cabina, in piedi sul predellino[38]
Mentre per gli:
Accusati di piccoli reati come insultare, rubare cibo, mangiare germogli del riso alle mucche, arare la terra e rompere l’aratro, o rompere un cucchiaio, costoro venivano uccisi sul posto[39]
Una volta arrivata, fosse anche notte, Duch era pronto per le deposizioni. Non si facevano dei regolari interrogatori, ma bensì si estorcevano confessioni ai detenuti. A questi, ai danni dei quali i pestaggi che aumentavano progressivamente d’intensità, Duch o chi per lui, veniva chiesto se fosse una spia russa, statunitense o vietnamita; se la confessione non arrivava il carcerato veniva sbattuto in cella dove aspettava per il prossimo interrogatorio.
Alla fine la persona, uomo donna o adolescente che fosse, cedeva e inventava una confessione, facendo nomi di altre persone.
Dopo la confessione la persona veniva eliminata, assieme alla sua famiglia, per evitare che potesse creare problemi o proseguire nella opera di spionaggio del parente.
Le purghe cominciarono a colpire anche i soldati della zona est, accusati di essere vicini ai comunisti vietnamiti.[40]
I Khmer rossi avevano affinato anche diverse forme di pene con il quale punire i trasgressori ma tre quelle che andavano per la maggiore. La trottola, con la quale la vittima prima veniva fatta stramazzare al suolo con un colpo di vanga, e questa, contorcendosi a terra ricordava appunto l’innocente gioco per i bambini, e come la trottola, quando smetteva di girare, anche il malcapitato rimaneva privo di vita a terra. Il sacco, di cui i Khmer rossi erano fieri, in quanto partorito dal loro genio creativo, che consisteva nell’incappucciare il trasgressore, perché magari aveva osato bere o mangiare il bene del popolo, con un sacco di plastica trasparente legato con due cordoni al collo; ben presto, quando l’aria sarebbe venuta a mancare, per liberarsi avrebbe tentato di mordere il sacco per bucarlo ma la morte sopraggiungeva per asfissia. L’altalena invece prevedeva che la spia o il nemico di classe fosse legato dietro ad un veicolo e trascinato fino a rendere a farne lacerare le pelli e fallo sanguinare ovunque per poi appenderlo a un albero legato testa e piedi, fino a quando la morte, l’unica salvezza ormai, non sopraggiungesse.[41]
Secondo dei dati forniti dallo stesso PCK per il fatto di essere dei pessimi elementi o degli agenti nemici, nell’agosto del 1977 erano già cinquemila i membri del Partito massacrati al Tuol Sleng.
Il centro di detenzione era stato trasformato in un luogo di orrore, in cui si consumavano delle folli atrocità:
“I detenuti venivano privati del loro sangue. Usavamo una pompa, ricorda una guardia. Continuavamo finché non restava dentro più sangue e riuscivano a stento a respirare.”[42]
Dal Tuol Sleng i prigionieri partivano alla volta di Choeung Ek. Arrivano di notte e, scortati dai carcerieri, sotto la flebile luce delle fotoelettriche cominciavano a scavare le fosse.
Finito il lavoro, venivano messi sull’orlo delle buche e dopo un colpo di vanga in testa, vi morivano dentro. Agli aguzzini spettava poi il compito di andare a recuperare i vestiti, quelli meno macchiati di sangue e si affrettavano a coprire la buca. [43]
Duch, in un’intervista di Valerio Pellizzari spiegò come funzionava il carcere.
Tuol Sleng fu creato il 15 agosto 1975 per entrare in funzione in ottobre. Duch trascorreva la giornata, dalle sette alle ventitré nel carcere, dove interrogava, rileggeva e decideva le torture cui sottoporre i prigionieri per riuscire a strappare una confessione. Un passaggio dell’intervista rileva cos’era Tuol Sleng:
Io, e tutti quelli che lavoravano in quel luogo, sapevamo che chi entrava lì dentro doveva essere demolito psicologicamente, eliminato con un lavoro progressivo, non doveva avere scampo. Qualsiasi risposta non serviva per evitare la morte.[44]
Tuol Sleng e Choeung Ek sono diventati musei della memoria, ma non erano gli unici casi. Di campi come Choeung Ek in Cambogia, ve ne erano quasi duecento, erano quelli che sono ricordati come i killing fields, i campi della morte[45].
7.7 Le donne cambogiane Per descrivere la condizione sociale delle donne nella Kampuchea Democratica, particolarmente significativo è il racconto fatto da un gruppo di donne cambogiane scappate nel Vietnam, che furono invitate a un viaggio nella loro terra. L’incontro avvenne con Khieu Thirith, rappresentante dell’Associazione delle donne della Kampuchea Democratica e sorella della Presidentessa Khieu Ponnary, ma che non si fece mai viva. Tra gli accordi della visita vi era la possibilità di incontrare e parlare con i lavoratori e i cittadini locali.
Il giorno seguente al loro arrivo partirono per Angkor e durante il tragitto incontrarono delle persone, addetti all’irrigazione secondo quando detto dalla leader Khmer, ma non poterono intervistarli, anzi i dialoghi tra Khieu Thirith e le ospiti vertirono sempre su argomenti futili e nonostante la donna conoscesse il vietnamita si espresse solo in lingua Khmer, servendosi di un’ospite che capiva il cambogiano. A Skoun il gruppo si fermò all’improvviso, dove la moglie di Ieng Sary fece onore a un gruppo di giovani soldati morti nel 1971 per liberare il popolo dal regime filo-governativo di Lon Nol.
Fecero colazione a Kompong Thom, in una pensioncina rustica rimasta in piedi in mezzo alle macerie, e ripartirono alla volta di Siem Reap, anche questa deserta, si sentiva solo il gloglottio dei polli e si vedevano ogni tanto delle persone attorno a qualche fuoco ma mai donne.
L’indomani al gruppo si aggiunse una donna che si presentò come la rappresentante delle donne del Siem Reap e assieme visitarono l’Angkor Wat, l’Angkor Thon e l’allevamento di coccodrilli.
L’Angkor Thom, una città fortificata che copriva una superficie di dieci chilometri quadrati di superficie e un muro di cinta alto otto metri, costruita dal Re Jayavarman, per dare una dimensione monumentale ad Angkor Wat[46]. Le vietnamite chiesero per due volte di poter visitare un cantiere in una diga ma una volta furono dirottate in un piccola in cui nessuno più lavorava e la sera, rinnovando la richiesta, ebbero come risposta che Phnom Penh si era rifiutata e che il giorno dopo sarebbero dovute rientrare. Nella capitale ci furono portate nei pressi di una fabbrica tessile ma fu loro detto che le lavoratrici erano tutte partite per la rieducazione e che erano state assunte delle contadine per far funzionare la fabbrica. Le delegate Khmer fieramente dissero che alcune di loro, da poco assunte erano in grado di badare a sette macchine alla volta. Una vietnamita, operaia da dodici anni, restò sbalordita perché era dopo tutto quel tempo arrivata a otto e chiese di vedere all’opera queste operai, ma la direttrice disse che la più brava quel giorno era ammalata. Ci fu anche una visita a una fabbrica chimica che produceva medicinale dove la direttrice era una ragazzina di diciassette anni e le operaie bambine di dodici tredici. Si aprì inevitabilmente una disputa circa le competenze tecnico-scientifiche delle addette e Khieu Thirith seccata fece capire che non le andava bene che le ospiti ponessero tali quesiti. Uno scontro verbale più accesso si ebbe sulla questione delle nascite. La rappresentante Khmer disse che le donne sposate vivevano ormai in un gruppo lontano dai mariti e che erano congedate da tutti i lavori duri per un periodo post parto di due mesi. A questo punto un’altra ospite, dottoressa chiese come potesse una donna rimanere incinta se divisa dal marito o comunque lontana da maschi. Khieu Thirith rispose, arrabbiata che le ospiti non capivano i veri problemi delle donne. Al capo delegata vietnamita Ha Ti Que, allora notò come durante il viaggio non aveva visto donne incinta e tantomeno una donna sorridente. La verità allora apparve sconcertante: non esisteva nessuna associazione delle donne, questa fu creata ad hoc per la visita per far vedere, che a differenza della realtà, la donna cambogiana viveva in condizioni disperate, come tutta la società.[47]
Non c’era persona cambogiana ormai, contadino, intellettuale, donna, e gli stessi Khmer rossi che non si potesse considerare vittima.
Jean Lacouture, storico e giornalista francese, all’epoca inviato de Le Monde per seguire la guerra in Vietnam, definì questo un “autogenocidio”, la salute compromessa dei bambini che dai dieci anni venivano gettati nelle risaie, ammalandosi e morendo nel giro di pochi mesi e la condizione della donna, che dopo poco perdeva il ciclo mestruale, stava bruciando intere generazioni. Il delirio ormai era totale. Thioun Prasith, a Parigi, rifiutò delle medicine che gli erano state offerte da amici, perché non si doveva scendere a nessun compromesso con i non-Khmer: “meglio vedere morire a migliaia i bambini della Cambogia, piuttosto che dover qualcosa agli europei.”[48]
[1] Università degli Studi di Milano-Bicocca <http://www.quadernimaterialisti.unimib.it/?p=1660,> ultima visione: 21 settembre 2012
[2] B. Kiernan, Genocide and Democracy in Cambodia: The Khmer Rouge, the U.N., and the International Community, New Haven , Ben Kiernan Editor 1999, p. 33.
[3] Ivi, p. 35.
[4] Ivi, p. 37.
[5] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, il terrore dei Khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano, Santacroce sull’Arno (Pisa), Jaka Book 2004, p. 18.
[6] B. Kiernan, Genocide and Democracy in Cambodia, cit., p. 34.
[7] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, il terrore dei Khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano, Santacroce sull’Arno Pisa, Circolo il Grandevetro/Jaka Book 2004, pp. 27-29.
[8] Ivi, p. 42.
[9] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, cit., p. 34.
[10] Ivi, p. 43.
[11]J. Lacouture, Cambogia I signori del terrore. Una rivoluzione diventata genocidio, Firenze, Sansoni Editori Nuova 1978, p. 111.
[12] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, cit., p. 55.
[13] Aeroporto Internazionale di Phnom Penh, gli altri due sono a Siem Reap e a Sihanoukville.
[14] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi. Ripensamento di un'illusione, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati 2004, p. 38.
[15] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi, cit., p. 44.
[16] P. Short, Pol Pot: anatomia di uno sterminio, a cura di Milano, Rizzoli 2008, p. 418.
[17] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi, cit., p. 53.
[18] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi, cit., pp. 55-59.
[19] Ivi, p. 113.
[20] Il pellegrinaggio alla Mecca: è il quinto pilastro dell'Islam ed è un atto obbligatorio, un evento importante nella vita del credente, rappresentando un mezzo di purificazione <http://www.sufi.it/islam/hajj.htm>, ultima visione: 04 ottobre 2012.
[21] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979: Race, idéologie, et pouvoir, Paris, Gallimard 1998, p. 311.
[22] D. Rasy, Khmer representation at the United Nations : a question of law or of politics?, London, Douch Rasy Editori 1974, p. 253.
[23] B. Kiernan, How Pol Pot came to power, a history of communism in Kampuchea, 1930-1970, Ann Arbor MI, Verso Book 1985, p. 387.
[24] F. Pounchaud, Cambogia: Year Zero, Londra, Allen Lane 1978, pp. 154-155.
[25] Bulletin of concerned asian scholars <http://criticalasianstudies.org/assets/files/bcas/v20n04.pdf>, ultima visione: 21 settembre 2012.
[26] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., pp. 353-354.
[27] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., p. 360.
[28] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., pp. 361-362.
[29] N. Sihanouk, La mia guerra contro la CIA, Milano, Jaka Book 1972, p. 144.
[30] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., p. 365.
[31] P. Short, Pol Pot, cit., p. 479.
[32] L.Hung e H. Liu Yuan (a cura di), Cina: storia, società e tradizioni, arte e cultura, religione e filosofia, Bologna, Edizioni Pendragon 2000, p. 33.
[33] T.Terzani, Fantasmi Dispacci dalla Cambogia, Milano, Longanesi 2008, p. 149.
[34] P. Short, Pol Pot, cit., p. 480.
[35] Ivi, p. 482
[36] Traduzione in italiano del regolamento del carcere che si può trovare nel giardino dell’edificio del Tuol Sleng, oggi Museo della Memoria.
[37] M. Del Corona, Cattedrali di cenere, Torino, EDT srl 2005, p. 15.
[38] R. Panh , S-21 La macchina di morte dei Khmer Rossi, Milano, O barra O Edizioni 2004, p. 90.
[39] Ivi, p. 89.
[40] R. Panh , S-21 La macchina di morte dei Khmer Rossi, cit., p. 64.
[41] J. Lacouture, Cambogia I signori del terrore, cit., p. 94.
[42] P. Short, Pol Pot, cit., p. 489.
[43] M. Del Corona, Cattedrali di cenere, cit, p. 25.
[44] Dall'articolo Il boia di Pol Pot"Chi entrava doveva morire" di V.Pellizzari da La Stampa del 10 febbraio 2008 <http://www1.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200802articoli/29981girata.asp>, ultima visione: 22 ottobre 2012.
[45] M. Del Corona, Cattedrali di cenere, cit, p. 25.
[46] N. Ray, G. Bloom, e D. Robinson (a cura di), Cambogia, Torino, EDT srl 2011, p. 184.
[47] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., pp. 187-192.
[48] J. Lacouture, Cambogia I signori del terrore, cit., p. 96.
7.1 Una rivoluzione popolare senza popolo Il sostegno del popolo è un fattore chiave per il successo di ogni rivoluzione. Secondo Lenin:
Soltanto quando gli strati inferiori non vogliono più il passato e gli strati superiori non possono più vivere con il passato la rivoluzione può vincere[1]
In Cambogia il sostegno popolare non era sufficientemente radicato e questa fu una delle cause che contribuì al fallimento della rivoluzione.
Per capire uno dei più sanguinari regimi rivoluzionari del secolo scorso, va analizzata la sua società.
In Cambogia vi era una società rurale in cui l’ottantacinque per cento della popolazione viveva in campagna e di questa, il novanta per cento era costituito da proprietari terreni, che vivevano grazie ai propri raccolti. Agli esordi degli anni Settanta questa percentuale diminuì del dieci per cento e per gli studiosi l’aumentare dell’impoverimento della popolazione non era tale da poter scatenare un sentimento rivoluzionario nella classe contadina.
Tra il 1963, anno in cui il movimento del PCK prese forma e il 1970, inizio della guerra civile si contava appena qualche migliaio di sostenitori dei Khmer rossi e meno della loro metà erano armati. [2]
Il colpo di stato di Lon Nol, la susseguente rivolta popolare, l’invasione straniera e i bombardamenti, che causarono la pesante crisi economica, permise ai Khmer rossi di farsi strada tra la popolazione rurale. L’alleanza con Sihanouk fece da scudo agli uomini di Pol Pot per mascherare l’identità comunista, facilmente rifiutabile dal popolo e attirò molte reclute, in nome del Principe contro il traditore. Il PCK giocò sull’ignoranza dei contadini e sulla bravura di fare fronte comune con i sihanoukisti e gli intellettuali, usando con vaghezza termini astratti come Ângkar o Khmer Romdas, liberazione dello Stato.
Inoltre il programma politico del FUNK non fece mai riferimento all’esistenza di un partito comunista, il suo obiettivo era di:
Condurre il popolo al successo nella rivoluzione democratica della nazione, allo sterminio dell’imperialismo, del feudalesimo, capitalismo, a formare uno stato rivoluzionario in Cambogia [3]
I motivi che spinsero i Khmer rossi alla segretezza erano molteplici: innanzitutto era la tattica auspicata sin dal 1902 da Lenin, caratteristica di tutte le azioni intraprese dai partiti comunisti di tutto il mondo, ma anche e soprattutto perché, visto i precedenti scontri con Sihanouk, la segretezza permetteva cautela. Inoltre erano consapevoli del fatto di poter essere impopolari; decenni di lavoro di propaganda avevano attirato solo uno sparuto gruppo di uomini e donne di cultura media e qualche ex monaco che si era preparato intellettualmente alla rivoluzione. Quando la vita nel villaggio fu distrutta, prima dal colpo di Stato e poi dalla contaminazione della guerra in Vietnam, cercare reclute in nome del comunismo non era una scelta saggia, quindi il PCK nascose la propria rivolta dietro alla mobilitazione per il sostegno a Sihanouk, celando quindi il vero obiettivo della rivoluzione sociale[4]. Ottenuto il supporto, si doveva poi operare per cominciare la lotta di classe e il nazionalismo. I Khmer incentrarono la propaganda sul nemico Lon Nol e gli alleati, USA e Vietnam del Sud, spacciandoli per oppressori del popolo e conquistatori, e sulla lotta di classe dei lavoratori e contadini contro i feudatari e capitalisti. La reazione era passiva e indifferente in quanto i contadini non capivano il partito e le sue idee politiche a causa della ignoranza che regnava in Cambogia. Ed è proprio sfruttando l’ignoranza del popolo che i Khmer fanno nascere Ângkar.
Ed è in nome di Ângkar che si scatenò la presunta rivoluzione comunista per la salvezza del popolo cambogiana che si trasformò in un genocidio, o come più esattamente è meglio dire, in autogenocidio. 7.2 In Cambogia prima dei Khmer rossi La vita dei cambogiani, fino al 1975, ruotava attorno alla famiglia, molto diversa da quello che ne è la concezione occidentale: comprendeva una parentela molto allargata, legata a tutte le persone con lo stesso vincolo di sangue, tuttavia tra genitori e figli i rapporti sono caratterizzati da una contenuta affettuosità[5], erano molte unite, grazie alla famiglia si trovava l’aiuto per risolvere i problemi, si mettevano a disposizione le risorse a favore di ogni suo membro e importante era il ruolo dell’anziano, visto come il saggio cui chiedere consigli e dare ascolto. In famiglia ci si ritrovava sia per superare un lutto sia per festeggiare ricorrenze ed eventi positivi. In ogni casa cambogiana vivevano molte persone.
Nella campagna, dove viveva la maggioranza del popolo, si condivideva tutto: dal letto alla religione, al riso. Religione e cibo erano i due elementi base del cambogiano: il buddhismo, in cui si mischiavo tratti dell’animismo e induismo, è sempre stato importante per il popolo Khmer, che fin dagli arbori, era d’aiuto per superare crisi, carestie, pandemie e guerra. Ogni famiglia preservava un angolo della casa al culto e i wat, durante le feste buddhiste erano gremiti di fedele.
Il riso, infine rappresenta l’elemento fondamentale famiglia: per il contadino la terra era la vita, dai campi dipendeva la loro sopravvivenza e la vita seguiva il ciclo del raccolto del riso.
Non essendovi dei gruppi sociali ben distinti, la famiglia fungeva come unità di base per la vita economica e sociale. In questo stato di anarchia contadina la libertà personale era pressoché totale. Descrivendo la vita nei villaggi prima della guerra civile e dell’instaurazione del regime Khmer rosso i contadini ricordavano: “Facevamo quello che volevamo ed eravamo felici perché nessuno ci diceva cosa fare.”[6]
7.3. La pulizia sociale e lo sterminio degli intelettuali Questo sistema sociale fu spazzato dal 17 aprile 1975, quando i Khmer rossi salirono al potere per instaurare il loro regime, per creare una Cambogia nuova.
Inizia una rivoluzione che provocherà un mutamento demografico e sociale all’interno dello Stato.
Per capire come la vita nel Kampuchea Democratico cambiò e diventò insostenibile, importanti sono le testimonianze di due cambogiani sopravvissuti allo sterminio, viste sotto due visioni diverse: da quella di Bovannrith Tho Nguon, un cittadino della capitale e da Ong Thong Hoeung, uno studente Khmer che dalla Francia era un sostenitore della causa comunista e che volle ritornare in patria per vedere con i suoi occhi il successo della rivoluzione in cui aveva creduto.
Ricordò Bovannrith Tho Nguon, sopravissuto alla deportazione nei campi di riso e successivamente trasferitosi in Italia, dove si laureò in Medicina e tuttora vive, nella città di Biella esercitano come medico virologo:
Con i megafoni continuarono ad ordinare che dovevamo abbandonare immediatamente la città per sfuggire ai bombarndamenti, […] dovevamo dirigersi verso l’ Ângkar.[..] Ma cos’era l’Ângkar?[…] Pensavamo che da un momento all’altro avremo incontrato un comitato militare, un potere politico, con persone in carne ed ossa. Imvece l’ Ângkar non si mostrò mai per come l’avevamo immaginato. Seppi poi che i Khmer rossi avevano camuffato con la parola Ângkar […] un’entità metafisica e inafferabbile[7]
Dalla capitale era stato deportato verso sud-est nella provincia di Prey Svang la prima volta, per poi essere trasferito a Battambang nel nord-ovest, dove venne portato nel villaggio di Kokdong dai dirigenti Khmer rossi, un villaggio in cui c’erano numerosissime risaie da coltivare. Il Battambang era la zona più produttiva dello stato, che sfamava tutta la nazione e permetteva di esportare il surplus.
Sia qui che a Prey Svang le condizioni igieniche erano terribili ma fu a Battambang, dopo che i leader Khmer si erano organizzati politicamente, che cominciò a partecipare alle riunioni, di autocritica, mirate al miglioramento della persona.
Ricordò alcune confessioni:
Ho abbandonato il mio lavoro troppo a lungo e questo è riprovevole e mi vergogno davanti ai miei compagni e davanti alla gloriosa Ângkar
Sono stato negligente, non ho avuto cura dei miei attrezzi da lavoro e ho causato un danno ad Ângkar. I lavori per costruire la diga potevano proseguire più velocemente. Chiedo scusa a tutti[8]
Non si sapeva che fine facevano i pentiti, sparivano e quindi per non essere accusati al posto di altri, cominciò il terrore, tutti cominciarono a sospettare di tutti, tutti erano pronti a tradire tutti per non essere giudicati dalla orwelliana Ângkar, che tutto sapeva.
I morti cadevano a pioggia, dalla fame, dalla dissenteria e uccisi dall’organizzazione, si faceva prima a contare i vivi che i morti.
La morte era diventata cosi frequente che ci eravamo abituati a considerarla preferibile a quella vita di sofferenze e privazioni[9]
Una volta alla settimana i giovani dovevano partecipare alle lezioni politiche tenute dai capi Khmer in cui si parlava della minaccia che veniva dagli USA, dalla CIA e anche del Vietnam.
Venne insegnato a non fidarsi del vicino, di colui che lavorava accanto nella risaia, nella costruzione della diga, che stava seduto accanto per mangiare o disteso per dormire perché in lui poteva nascondersi un infiltrato.
In questi convegni si imparava a diventare rivoluzionario, il messaggio era chiaro:
La nuova Cambogia sarà costruita dai giovanissimi che non hanno avuto il tempo e l’occasione di non essere corrotti dalla vecchia società[10]
Qui vi era il progetto dei Khmer rossi: una nuova società, la società dell’anno zero, di coloro che potevano essere plasmati a loro volontà, che non erano cresciuti con i sentimenti d’amore per i propri genitori, la famiglia adesso è la Cambogia, sono tutti parte di una nuova famiglia. Vanno sterminati tutti quelli che non possono essere rieducati.
La popolazione antica o il nuovo popolo Khmer doveva essere riformato. Tutti i cambogiani dai tredici anni d’età in su venivano usati per lavorare, e vennero distinti nelle tre forze: i giovani erano considerati la “prima forza” la punta di diamante della produzione, che possono fare qualsiasi tipo di lavoro; la “seconda forza” era formata dagli adulti, da coloro che erano sposati con figli, che lavorano al pari degli altri, soltanto le donne dal settimo mese di gravidanza o con un figlio sotto l’anno d’età erano esonarate dai lavori più duri; infine vi era la “terza forza”, cioè le persone anziane e i vecchi ai quali erano affidati lavori di riparazione o tessitura, mentre alle anziane era chiesto di “educare lo spirito rivoluzionario dei bambinetti con racconti eroici”[11]
Per capire come era duro l’indottrinamento Bovannrith Tho Nguon, ricordò, come dopo aver perso tutta la sua famiglia, aveva dovuto trasferire il fratellino nell’orfanotrofio del campo, e qui ai bambini veniva fatta ripetere questa filastrocca:
“Amiamo senza fine l’Ângkar, Grazie all’Ângkar noi viviamo e cresciamo in buona salute, Impariamo a conoscere tutto ciò che ci circonda.”[12]
Questo è il ricordo di un cambogiano che è stato vittima inconsapevole di un progetto ambizioso. La testimonianza che segue evidenzia il paradosso del progetto dei Khmer rossi, che ha trasformato in vittima un proprio seguace, un proprio sostenitore, e come lui a migliaia, ma che ben pochi hanno avuto la fortuna di poter raccontare.
È il caso di Ong Thong Hoeung, uno studente cambogiano che durante gli anni in cui, in Francia si stavano confezionando i moti rivoluzionari, era parte attiva di questi e da Parigi, tramite le comunicazioni pervenute dal FUNK era entusiasta della rivoluzione.
Tutte le sue convinzioni furono spazzate vie appena tocca il suolo natio.
Al suo arrivo a Phnom Penh ebbe un brutto presagio: appena uscito da Pochentong[13], si aspettava di ammirare le opere realizzate dalla rivoluzione, tanto reclamizzate dai bollettini del FUNK a Parigi, ma dal momento in cui mise piede a Phnom Penh vedi solo uomini vestiti di nero e i loro volti freddi:
Le persone che sono qui non sembrano esseri umani, si direbbero automi venuti da lontano.[…] Fisicamente mi assomigliano, ci assomigliano. Hanno la fisionomia asiatica cambogiana. Ma non è che apparenza; per il resto non hanno nulla in comune con noi” [14]
Arrivò all’istituto tecnologico dell’amicizia Khmero-sovietica, denominata Kar 15, in cui ritrovò i suoi amici rientrati appena tre mesi prima, ma già magri come chiodi, vestiti luridi, denti neri o addirittura assenti.
Era costernato: prima di uscire dall’aeroporto era fiero della rivoluzione, amava i compagni Khmer rossi che avevano liberato il popolo dai bombardamenti dei B52, ma al primo passo mosso nella capitale si ritrovò in un incubo: persone che fino a quel momento erano suoi amici, lo trattarono come un prigioniero. Anche Bounnie, la moglie rientrata prima di lui, lo evita per paura di Ângkar.
Nel dialogo che ricorda nel suo libro tra i due vi è un passaggio drammatico:
“ (Ong) Come ti senti? (Bounnie) Mi sforzo di costruirmi”[15]
La paura e l’angoscia che Ângkar genera nel cambogiano, lo annullava come individuo e per sopravvivere si adeguava alla sua volontà pur non sapendo con chi concretamente aveva a che fare.
Nel Kar 15, primo campo di smistamento, passarono gli intellettuali che il regime volle rimpatriare, cominciarono a essere rieducati. In un’intervista Long Visalo, un intellettuale di rientro in patria, ricordò come furono costretti a piantare riso su un campo da basket. I Khmer rossi non vollero che fosse smantellato ma ricoperto e trasformato in risaia. Il campo da pallacanestro era dove” la borghesia si diverte, un simbolo che va eliminato.”[16]
7.4 La vita nei campi di rieducazione Il kar 15 era un campo formato da intellettuali, in cui le condizioni erano estreme, ma rispecchiava la vita che si faceva in tutti i campi di lavoro, cantieri o fabbriche: dalle cinque del mattino alle nove e mezza di sera si lavorava con piccoli intervalli solo per pranzo e cena e si concludeva la giornata con la seduta di critica e autocritica
Indispensabile era comportarsi da rivoluzionario,[…] bisognava essere “come il popolo” per non essere tacciati di feudalesimo, individualismo, di materialismo, di essere considerati reazionari o di appartenere a una corrente controrivoluzionaria o ancora comportarsi da piccoli borghesi[17]
Bisognava denunciare chi possedeva più del popolo, ciascuno doveva sorvegliare gli altri e durante le riunioni svelare chi si comportava in maniera non conforme alla vita del partito: chi sorrideva pensava alla sua felicità e non si curava dei sacrifici dei combattenti, chi chiedeva aiuto dimostrava di non possedere spirito di resistenza.
La riunione quotidiana durava un’ora e mezza, mentre quella di approfondimento, che si teneva ogni tre giorni, si protraeva fino a notte fonda: durante queste ognuno del campo doveva raccontare cosa aveva fatto di positivo e di negativo, in cui poteva criticare un compagno se questo non aveva fatto quello che Ângkar richiedeva. Vi erano poi i veak sekso, i seminari politici bimestrali, dalla durata di tre giorni. Erano riunioni in cui si parlava della rivoluzione alle quali intervenivano i leader, in altre si stendeva l’autobiografia dei contadini, redatte secondo disposizioni precise. Infine venivano fatti i moha sannibath, le assemblea generali a cadenze annuali, che seguivano lo stesso iter dei veak sekso.[18]
Anch’egli cambiò, durante la seconda evacuazione, campo, venendo trasferito da sud est Phnom Penh in una fabbrica di Khbal Thnâl, per poi ritornare in una risaia a sud est dello Stato , ad Angkor Chey, in cui vennero inasprite le regole: raccogliere la frutta che andava marcia per terra costava la vita, per citare una regola, era vietato parlare e la dose di riso venne dimezzata. In questo clima da incubo un deportato, Chang Séng Nong riuscì a fuggire. Ângkar, dopo questo fatto, tramite i dirigenti dei campi aumentò la guerra psicologica, che assieme alla fame e alla stanchezza, rendeva gli internati facilmente plagiabili; il messaggio fu che l’evaso altro non era che una spia dell’intelligence americana, e bisognava diffidare del vicino perché anche egli potrebbe essere un agente della CIA pronto a tradirlo e l’unico modo per essere e restare puri era quello di continuare a confessare i propri peccati e soprattutto, quelli altrui all’organizzazione, e visto che funzionava la tecnica, si diminuì ancora la razione di riso.
Arrivati a questo punto, come ricordò Ong Thong Hoeung:
Nessuno conosce più nessuno,[…] ognuno è un potenziale nemico, un traditore da abbattere,[…] facciamo ciò che ci chiede l’Ângkar, come bestie da soma. Eccoci trasformati in animali[19]
7.5 La pulizia etnica Per arrivare alla creazione del popolo nuovo della Kampuchea non si doveva purificarlo dalla contaminazione del germe capitalistica, bisognava eliminare chi non era un cambogiano vero, chi aveva sangue straniero e si continuò l’opera di pulizia etnica già cominciata durante la guerra civile.
7.5.1 I musulmani Cham I Cham erano un popolo, la cui patria d’origine, il Champa, uno dei primi stati hindo-buddhista, nel 1471 d.C. passò sotto il dominio vietnamita, anche se la gran parte della etnia emigrò in Cambogia, convertendosi all’Islam nel 1642 e concentrandosi in una sessantina di villaggi nelle attuali province di Pursat e Kompong Cham, rispettivamente a ovest e a est del Mekong, arrivando fino al confine nord di Phnom Penh, dove tra il 1790 e il 1817 eressero la prima moschea. Si stabilirono anche in altre zone del paese, in particolare nei distretti meridionali di Takeo e di Kompot, anche se fu a Kompong Cham, precisamente nel distretto di Krauchhmar in cui formarono grandi villaggi di agricoltori, pescatori e tessitori e gestivano il monopolio del commercio del bestiame con la regione di Phnom Penh.
I musulmani cambogiani d’origine Cham, tutti sunniti, erano molto praticanti: erano più di trentatremila ed eressero quattrocento moschea e almeno seimila di loro fecero il Ḥajj[20].
I Cham dichiararono di aver avuto problemi di discriminazione con i cambogiani ancora prima della guerra civile, anche se in molte zone l’integrazione era totale, arrivando a celebrare matrimoni misti tra le due etnie, e grazie a questa simbiosi i Cham poterono risolvere alcuni problemi, su tutti diminuì del venti per cento la mortalità infantile. Questa nuova etnia fu chiamata definita Khmer-islams.[21]
Essenzialmente rurali, nessun Cham partecipò all’Assemblea nazionale della Cambogia nel 1960, ma quando gli statunitensi inviarono le truppe nel Vietnam, Sihanouk convocò una conferenza a Phnom Penh di tutti i popoli e delle minoranze, le quali beneficiarono di aiuti voluti espressamente da Lon Nol e dal Ministro degli “Affari Misteriosi” Les Kames di origine Cham. Quando, nei primi anni, la guerra civile arrivò nel suo apice, a Les Kames fu affidato un plotone che sterminò sistematicamente tutti i Khmer rossi del FUNK che occupavano i villaggi nella zona di competenza del Ministro.
Tuttavia erano molti i Cham che volevano sposare la causa comunista.
La zona sud fu teatro di una prima rappresaglia contro i Cham, furono i primi a essere costretti ad abbandonare l’Islam. Tra il 1972 e il 1973 i Khmer rossi occuparono la zona di Treang e cominciarono le prime deportazioni. Furono portati ad Angkor Chey, a Kampot, dove presero il nome di moulthann phñoe, popolo di base decaduto, facendoli diventare di fatto l’archetipo dei deportati.
Pol Pot, che nel 1973 aveva il suo quartiere generale nella zona nord comandata da Ke Pauk, diramò un documento in cui dichiarò che tutti i lavoratori di tutte le etnie sono lavoratori come quelli del Kampuchea democratico, eccezione fatta per i Khmer-islams, che poi non stanno così male
Non era vero che tra i Cham non ci fossero contadini, questa voleva essere una dichiarazione razzista fondata sullo stereotipo Cham uguale piccolo pescatore indipendente benestante. Avevano una lingua e una cultura diversa, i grandi villaggi, ricchi grazie alle loro risorse ed erano una minaccia al progetto comunista delle grandi cooperative.
In un altro documento del leader Khmer rosso nel febbraio 1974 scattò l’ordine di dislocare i Khmer-islams e di fare in uno di dividerli in piccoli gruppi per evitare che si riorganizzassero.
Da una testimonianza di Abdul-Gaffar Peang Meth:
Tutti i pescatori Khmer musulmani erano obbligati a dichiarare il pescato alle cooperative comuniste e venderlo a un prezzo basso e riacquistare il pesce a un prezzo molto più elevato. Quando i pescatori in una manifestazione si ribellarono, il 23 febbraio 1974, i comunisti prima li minacciarono, poi spararono tra la folla, uccidendo più di cento dimostranti.[22]
In settembre Son Man, uno dei pochi Cham a diventare un dirigente del PCK fu espulso dal partito ed esiliato in un villaggio. Furono arrestati anche settantuno comunisti Cham e per questo motivo, come dichiarò James Fenton, giornalista inglese, dai Khmer rossi si staccò un gruppo che fu definito Khmer Saor.
I Khmer Saor, o Khmer bianchi si rifugiarono nelle forse, i cui leader erano ufficiali comunisti musulmani Cham che appoggiarono Sihanouk contro le idee rivoluzionarie della collettivizzazione della proprietà e in alcune regioni furono scambiati per guerriglieri pro-vietnamiti, la cui vita però fu breve e nel corso del 1975 furono tutti sterminati.[23]
François Pounchaud, nel suo libro, “Cambodia:Year Zero”, riportò la testimonianza di un Cham quarantenne in cui ricordava l’episodio in cui suoi due fratelli arruolati nelle file del PCK, fecero visita al padre dopo la vittoria del 1975:
Una notte i due figli tornarono a far visita al loro padre e raccontarono le loro gesta; avevano ucciso dei Khmer, avevano mangiato carne di maiale e liberato il paese “vieni con noi”- dissero – “a seguire la rivoluzione.” L’uomo anziano non disse una parola, ma uscì con un coltello e uccise i suoi figli. Coprì i loro cadaveri con un grande telo nero e avvertì i suoi vicini: Venite a vedere, ho ucciso dei nemici! Quando videro i loro volti i suoi amici dissero: Ma sono i tuoi figli! No, rispose il padre, sono dei nemici, nemici del nostro popolo e della nostra religione, così gli ho uccisi![24]
Il mattino seguente, truppe dei Khmer rossi circondarono il villaggio e fecero una strage.
Per il comandante Khmer rosso Ly Math, le cose andarono diversamente; i Khmer rossi stavano raccogliendo i corani e tagliando i capelli alle donne quando i Cham si sono ribellati e i soldati hanno dovuto sparare tra la folla, che rispose brandendo pugnali e machete, facendo una dozzina di morte tra i Khmer rossi. I soldati allora spararono ad altezza d’uomo uccidendo ed evacuando i superstiti. Cambiarono anche il nome a questo villaggio, da Koh Phol (isola produttiva) a Kho Phes (isola di Phes). Stesso copione fu usato per il vicino villaggio di Khleang Svay, dove, dopo l’uccisione di un soldato Khmer rosso, gli uomini in nero massacrarono il sessanta per cento degli abitanti.
I deportati furono spostati a Tbaung Khmun: quelli che erano stati alleati con i Khmer rossi ora sono nemici, razza da eliminare. Trattati nelle peggiori condizioni, in luoghi in cui la vita era già un inferno. I Cham tentarono di ribellarsi e uccisero ventotto soldati Khmer. Da quel giorno si decise di uccidere un centinaio di Cham al giorno, fino alla pulizia totale.
Nella zona nord, la zona meno abitata dai musulmani, questi erano essenzialmente riuniti attorno alle piantagione di Chamcar Loeu e Baray nella provincia di Kompong Thom: nel 1975 si contavano duemila famiglie ripartite in sette villaggi. Le uniche notizie che si ebbero sulla loro sorte furono ottenute grazie a delle testimonianze raccolte dal nuovo governo della Repubblica Popolare di Kampuchea del 1983, secondo le quali durante le evacuazioni dell’aprile e dell’ottobre, essendo accusati di incarnare lo spirito vietnamita, furono sterminati quasi tutti durante l’esodo e quei pochi rimasti, perirono una volta arrivati nei villaggi assegnati.
Nella zona sud-ovest vivevano quattro comunità Cham, nei pressi delle risaie di Takeo, Kampot, Kou Thom e nelle vicinanze di Phnom Penh.
A Takeo, patria del nonno Mok, venne utilizzato per la prima volta il termine “decaduto” per differenziare i cittadini Cham dagli abitanti di origine Khmer.
Dopo il 17 aprile 1975 a questi decaduti vennero tolti tutti i beni, vennero messi a lavorare giorno e notte, distrutte le moschee e vietati tutti i simboli della loro tradizione, dai riti religiosi alla lingua. Qualche famiglia riuscì a fuggire in Vietnam, risalendo il Mekong, mentre per le altre la sorte non fu diversa degli altri musulmani: portati a Battambang tra i trentacinquemila morti totali vi erano i ventimila Cham.[25]
7.5.2 I cambogiani di origine cinese I cambogiani d’origine cinese negli anni Sessanta erano oltre quattrocentomila, vivevano in zone rurali, la maggior parte della quale commercianti, ma tra loro vi erano molti usurai, costretti fin dai primi bombardamenti americani a spostarsi in massa nella capitale; quando cominciò la prima evacuazione furono fatti rientrare nei loro villaggi d’origine, a est e nel sud-ovest, per poi esseri ricollocati nel nord-ovest durante il secondo esodo.
Pur non essendo vittime di una purificazione razziale, furono costretti a lavorare più duramente e in condizioni peggiori rispetto ai contadini, per il semplice fatto di essere i nuovi cittadini. Venivano anche giudicati in maniera più dura e alla minima infrazione del regolamento di Ângkar, questa si pagava con la vita. Stephen Heder, accademico di politica internazionale nella facoltà di scienze politiche all’University of London stimò che, tra il 1976 e il 1978, tra i sino-Khmer i morti furono, tra giustiziati e vinti dalla fame e dalle malattie, oltre centocinquantamila.
I bambini, dalla testimonianza di Ang Ngeak Teang, allora di dieci anni, erano separati dalla famiglia e iniziati da giovani insegnati all’alfabeto Khmer e indottrinati con i moti rivoluzionari, ma non erano discriminati per la loro origine ma sempre e solo per il fatto di essere cittadini della capitale. [26]
I sino-Khmer rimasero anche loro spiazzati dal comportamento che i rivoluzionari, una volta liberata la Cambogia da Lon Nol preservarono ai cittadini. Hun, un cambogiano d’origine cinese di Battambang, più precisamente di Pailin, ricordò come il 17 aprile, saputo della liberazione di Phnom Penh, il villaggio si stava preparando con bacchetti per accogliere i vincitori. Arrivarono dodici giorni dopo ma la città fu evacuata con la forza, i cinesi furono separati dai cittadini Khmer, i cittadini di base e vennero confinati nei “villaggi cinesi”, pratica che si ripeté in tutti i paesi della Cambogia.
Dalla testimonianza di uno studente che scappò attraverso la regione dello Siem Reap in Thailandia, si evince che fu nel 1977 che cominciarono le esecuzioni dei capitalisti, degli studenti, dei bonzi, dei cinesi e dei vietnamiti anche se cittadini cambogiani, ma, come emerse dalla grande maggioranze di altre testimonianze, lo sterminio cinese non fu dettata dal pregiudizio razziale, ma in quanto vennero accomunati ai decaduti di Phnom Penh, giustiziati quindi per motivi di sfondo socio-geografico e non razziale.[27]
Una curiosità: forse quello che ha spinto i Khmer rossi a non farne una questione di razza è stato perché il loro leader, il pallido Sâr, deve la natura del suo nome alla sua origine cinese.
7.5.3 L’epurazione dei Khmero- vietnamiti e la svolta del PCK Il PCK, nel settembre del 1975, espulse dal paese centocinquantamila cambogiani vietnamiti, costringendoli al ritorno alla terra d’origine ma tanti furono uccisi durante il rimpatrio. A questa decisione seguì l’assassinio di sessantacinque Khmero-vietnamiti a Kampot, durante il tentativo di fuga in Thailandia. Tuttavia quasi duemila di loro restarono in Kampuchea in quanto sposati a donne o uomini del Kampuchea.
All’inizio del 1976 scattano una serie di ordinanze folli da parte dei Khmer rossi.
Innanzitutto scattò il divieto di abbandonare lo Stato, e iniziarono le prime uccisioni, anche se non era ancora possibile considerarla una mattanza scatenata da odi razziali.
Esistevano a dire il vero delle direttive diramate lo stesso anno che ordinavano ai cambogiani maschi di uccidere le loro moglie vietnamite e se avessero mostrato pietà e dolore dopo l’uccisione, la stessa sorte sarebbe toccata a loro e ai figli, tuttavia i funzionari non le applicarono.
Venne però applicata una direttiva che prevedeva che tutti i responsabili Khmer rossi locali dovevano individuare e arrestare i Khmero-vietnamiti, ucciderli e seppellirli appena fuori i villaggi. Il massacro più brutale si verificò nel maggio del 1977 nel villaggio di Kompong Chhnang in cui tra adulti e bambini, i giustiziati furono centoventi.
Un po’ alla volta, da ovest a nord-est tutti i Khmero-vietnamiti furono arrestati e uccisi.[28]
Le ragioni del massacro dei vietnamiti vanno ricondotte a questioni storiche.
Erano comunemente chiamati con il nome di Khmer krom, il nome con cui si identificavano gli abitanti del Kampuchea krom, Kampuchea meridionale, una regione che era stata annessa al Vietnam, i cui abitanti prima si erano schierati con i francesi durante la prima guerra d’Indocina tra il 1946 e il 1954, e poi assieme ai berretti verdi americani della Mike Force durante la guerra del Vietnam. [29]
Tra il 1975 e il 1977 i massacri dei Khmer krom furono imputabili totalmente alle forze Khmer del sud-ovest comandate da Ta Mok, che a causa a questi massacri venne anche soprannominato il “nonno macellaio” e fu la scellerata decisione di voler riconquistare la Kampuchea Krom una delle cause dalla guerra con i vietnamiti, che portò alla fine del regime dei Khmer rossi.[30]
Durante l’epurazione dei vietnamiti, il 9 settembre 1976, morì Mao Tze-tung e una settimana più tardi Pol Pot annunciò la matrice marxita-leninista di Ângkar. L’esistenza del PCK stava per essere resa pubblica, era da troppo tempo che i cinesi premevano per questo e l’undici ottobre finalmente, con una sobria commemorazione pubblica venne festeggiato il sedicesimo anniversario della sua fondazione. Inoltre Pol Pot annunciò che doveva abbandonare il ruolo di leader per gravi motivi di salute e che al suo posto gli sarebbe subentrato Nuon Chea, quattro settimane più tardi anche Ieng Sary sarebbe uscito dalla ribalta. La notizia fece felice Lê Duẩn che considerava i due cognati elementi negativi mentre piaceva la figura di Nuon Chea, e andò ad avvisare l’alleato sovietico Leonid Il'ič Brežnev, che il 14 ottobre 1964 era diventato leader del PCUS, il quale anch’egli era soddisfatto perché ora, a loro vedere, la strada per lo sviluppo democratico del Kampuchea era spianata. La notizia era falsa, servì solo a Pol Pot per capire quanto poco informati fossero i vietnamiti sulla questione dei vicini.[31]
Nello stesso giorno Hua Guofeng, il successore provvisorio di Mao Tze-tung fece arrestare Jianf Qing, la vedova del leader appena scomparso assieme a Zhang Chunqiao Yao Wenyuan e Wang Hongwen, in quanto stavano preparando un colpo di Stato che avrebbe portato al comando la donna.[32]
La notizia non era un fatto positivo per la Cambogia, serviva quindi andare a confermare l’amicizia dell’unico alleato potente dei Khmer rossi: cosa che avvenne durante la visita a Pechino a Hua Guofeng fu nel novembre del 1976, di Pol Pot, Vorn Vet, Ieng Sary, Rous Nhim e Douen. Il nuovo governo cinese chiese a Pol Pot di riesumare il Principe Sihanouk, giacché ora serviva ciò che simboleggiava, l’unità del paese, perché la follia radicale dei primi due anni di governo Khmer rosso stava preoccupando Pechino.[33]
Nello stesso mese si tenne il Plenum annuale del PCK in cui si decise di dover cominciare i preparativi per una guerra, sia di guerriglia che convenzionale contro il Vietnam, anche se l’attacco non era imminente.
Son Sen, ministro della difesa dichiarò:
In un primo tempo il Vietnam era un nostro amico, ma un amico dei nostri problemi. Ora è diventato il nostro nemico. Prima non capivamo bene i loro piani – ma ora sappiamo con certezza che hanno predisposto gruppi di traditori per combattere contro di noi[34]
Le epurazioni continuarono e si moltiplicarono. I sospetti traditori, che si credevano traditori a favori del Vietnam, venivano inviati nelle prigioni per essere interrogati.[35]
7.6 Le prigioni e i killing fields: l’esempio di Tuol Sleng e Choeung Ek Per spiegare cos’era Tuol Sleng basterebbe leggerne il suo regolamento:
1.Devi rispondere attenendoti alla mia domanda. Non tergiversare; 2. Non cercare di occultare i fatti adducendo pretesti vari, ti è severamente vietato contestarmi; 3. Non fare il finto tonto, perché sei un controrivoluzionario;
4. Devi rispondere immediatamente alle mie domande senza sprecare tempo a riflettere; 5. Non parlarmi delle tue piccole azioni immorali o dell'essenza della rivoluzione: 6. Non devi assolutamente piangere mentre ricevi l'elettroshock o le frustate; 7. Non fare nulla, siediti e attendi i miei ordini. Se non ci sono ordini, rimani in silenzio. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi eseguire immediatamente senza protestare;8. Non inventare scuse sulla Kampuchea Krom per nascondere i tuoi segreti da traditore:9. Se non segui tutte le regole succitate, riceverai moltissime frustate con il cavo elettrico: 10. Se disubbidirai ad una sola delle mie regole riceverai dieci frustate o cinque scosse elettriche[36]
Tuol Sleng o S-21, dove S era sala e 21 il codice per il santebal, la contrazione di due parole Khmer: santisuk, sicurezza e norkorbal polizia[37].
Fu l’evoluzione del M-13, un centro di detenzione creato dai Khmer rossi a nord di Phnom Penh, ancora prima del 17 aprile 1975 che permetteva ai comunisti di eliminare i soggetti giudicati inaffidabili. Il direttore rimase sempre lo stesso: Duch, al secolo Kang Kek Iew.
Le celle del S-21 erano scavate nella terra e una semplice inferriata alla loro imboccatura impediva ai prigionieri di fuggire, in attesa di essere interrogati.
Il ricordo di Houy, un carceriere:
Mettavamo le manette ai prigionieri, li bendavamo e li spingevamo sui camion. Li prendavamo a calci. Cadevano nel cassone e chiudevamo bene il telo. Io non dovevo sedermi sul camion con loro, perché erano dei traditori: ci avrebbero potuto contaminare. Allora mi appendevo alla porta della cabina, in piedi sul predellino[38]
Mentre per gli:
Accusati di piccoli reati come insultare, rubare cibo, mangiare germogli del riso alle mucche, arare la terra e rompere l’aratro, o rompere un cucchiaio, costoro venivano uccisi sul posto[39]
Una volta arrivata, fosse anche notte, Duch era pronto per le deposizioni. Non si facevano dei regolari interrogatori, ma bensì si estorcevano confessioni ai detenuti. A questi, ai danni dei quali i pestaggi che aumentavano progressivamente d’intensità, Duch o chi per lui, veniva chiesto se fosse una spia russa, statunitense o vietnamita; se la confessione non arrivava il carcerato veniva sbattuto in cella dove aspettava per il prossimo interrogatorio.
Alla fine la persona, uomo donna o adolescente che fosse, cedeva e inventava una confessione, facendo nomi di altre persone.
Dopo la confessione la persona veniva eliminata, assieme alla sua famiglia, per evitare che potesse creare problemi o proseguire nella opera di spionaggio del parente.
Le purghe cominciarono a colpire anche i soldati della zona est, accusati di essere vicini ai comunisti vietnamiti.[40]
I Khmer rossi avevano affinato anche diverse forme di pene con il quale punire i trasgressori ma tre quelle che andavano per la maggiore. La trottola, con la quale la vittima prima veniva fatta stramazzare al suolo con un colpo di vanga, e questa, contorcendosi a terra ricordava appunto l’innocente gioco per i bambini, e come la trottola, quando smetteva di girare, anche il malcapitato rimaneva privo di vita a terra. Il sacco, di cui i Khmer rossi erano fieri, in quanto partorito dal loro genio creativo, che consisteva nell’incappucciare il trasgressore, perché magari aveva osato bere o mangiare il bene del popolo, con un sacco di plastica trasparente legato con due cordoni al collo; ben presto, quando l’aria sarebbe venuta a mancare, per liberarsi avrebbe tentato di mordere il sacco per bucarlo ma la morte sopraggiungeva per asfissia. L’altalena invece prevedeva che la spia o il nemico di classe fosse legato dietro ad un veicolo e trascinato fino a rendere a farne lacerare le pelli e fallo sanguinare ovunque per poi appenderlo a un albero legato testa e piedi, fino a quando la morte, l’unica salvezza ormai, non sopraggiungesse.[41]
Secondo dei dati forniti dallo stesso PCK per il fatto di essere dei pessimi elementi o degli agenti nemici, nell’agosto del 1977 erano già cinquemila i membri del Partito massacrati al Tuol Sleng.
Il centro di detenzione era stato trasformato in un luogo di orrore, in cui si consumavano delle folli atrocità:
“I detenuti venivano privati del loro sangue. Usavamo una pompa, ricorda una guardia. Continuavamo finché non restava dentro più sangue e riuscivano a stento a respirare.”[42]
Dal Tuol Sleng i prigionieri partivano alla volta di Choeung Ek. Arrivano di notte e, scortati dai carcerieri, sotto la flebile luce delle fotoelettriche cominciavano a scavare le fosse.
Finito il lavoro, venivano messi sull’orlo delle buche e dopo un colpo di vanga in testa, vi morivano dentro. Agli aguzzini spettava poi il compito di andare a recuperare i vestiti, quelli meno macchiati di sangue e si affrettavano a coprire la buca. [43]
Duch, in un’intervista di Valerio Pellizzari spiegò come funzionava il carcere.
Tuol Sleng fu creato il 15 agosto 1975 per entrare in funzione in ottobre. Duch trascorreva la giornata, dalle sette alle ventitré nel carcere, dove interrogava, rileggeva e decideva le torture cui sottoporre i prigionieri per riuscire a strappare una confessione. Un passaggio dell’intervista rileva cos’era Tuol Sleng:
Io, e tutti quelli che lavoravano in quel luogo, sapevamo che chi entrava lì dentro doveva essere demolito psicologicamente, eliminato con un lavoro progressivo, non doveva avere scampo. Qualsiasi risposta non serviva per evitare la morte.[44]
Tuol Sleng e Choeung Ek sono diventati musei della memoria, ma non erano gli unici casi. Di campi come Choeung Ek in Cambogia, ve ne erano quasi duecento, erano quelli che sono ricordati come i killing fields, i campi della morte[45].
7.7 Le donne cambogiane Per descrivere la condizione sociale delle donne nella Kampuchea Democratica, particolarmente significativo è il racconto fatto da un gruppo di donne cambogiane scappate nel Vietnam, che furono invitate a un viaggio nella loro terra. L’incontro avvenne con Khieu Thirith, rappresentante dell’Associazione delle donne della Kampuchea Democratica e sorella della Presidentessa Khieu Ponnary, ma che non si fece mai viva. Tra gli accordi della visita vi era la possibilità di incontrare e parlare con i lavoratori e i cittadini locali.
Il giorno seguente al loro arrivo partirono per Angkor e durante il tragitto incontrarono delle persone, addetti all’irrigazione secondo quando detto dalla leader Khmer, ma non poterono intervistarli, anzi i dialoghi tra Khieu Thirith e le ospiti vertirono sempre su argomenti futili e nonostante la donna conoscesse il vietnamita si espresse solo in lingua Khmer, servendosi di un’ospite che capiva il cambogiano. A Skoun il gruppo si fermò all’improvviso, dove la moglie di Ieng Sary fece onore a un gruppo di giovani soldati morti nel 1971 per liberare il popolo dal regime filo-governativo di Lon Nol.
Fecero colazione a Kompong Thom, in una pensioncina rustica rimasta in piedi in mezzo alle macerie, e ripartirono alla volta di Siem Reap, anche questa deserta, si sentiva solo il gloglottio dei polli e si vedevano ogni tanto delle persone attorno a qualche fuoco ma mai donne.
L’indomani al gruppo si aggiunse una donna che si presentò come la rappresentante delle donne del Siem Reap e assieme visitarono l’Angkor Wat, l’Angkor Thon e l’allevamento di coccodrilli.
L’Angkor Thom, una città fortificata che copriva una superficie di dieci chilometri quadrati di superficie e un muro di cinta alto otto metri, costruita dal Re Jayavarman, per dare una dimensione monumentale ad Angkor Wat[46]. Le vietnamite chiesero per due volte di poter visitare un cantiere in una diga ma una volta furono dirottate in un piccola in cui nessuno più lavorava e la sera, rinnovando la richiesta, ebbero come risposta che Phnom Penh si era rifiutata e che il giorno dopo sarebbero dovute rientrare. Nella capitale ci furono portate nei pressi di una fabbrica tessile ma fu loro detto che le lavoratrici erano tutte partite per la rieducazione e che erano state assunte delle contadine per far funzionare la fabbrica. Le delegate Khmer fieramente dissero che alcune di loro, da poco assunte erano in grado di badare a sette macchine alla volta. Una vietnamita, operaia da dodici anni, restò sbalordita perché era dopo tutto quel tempo arrivata a otto e chiese di vedere all’opera queste operai, ma la direttrice disse che la più brava quel giorno era ammalata. Ci fu anche una visita a una fabbrica chimica che produceva medicinale dove la direttrice era una ragazzina di diciassette anni e le operaie bambine di dodici tredici. Si aprì inevitabilmente una disputa circa le competenze tecnico-scientifiche delle addette e Khieu Thirith seccata fece capire che non le andava bene che le ospiti ponessero tali quesiti. Uno scontro verbale più accesso si ebbe sulla questione delle nascite. La rappresentante Khmer disse che le donne sposate vivevano ormai in un gruppo lontano dai mariti e che erano congedate da tutti i lavori duri per un periodo post parto di due mesi. A questo punto un’altra ospite, dottoressa chiese come potesse una donna rimanere incinta se divisa dal marito o comunque lontana da maschi. Khieu Thirith rispose, arrabbiata che le ospiti non capivano i veri problemi delle donne. Al capo delegata vietnamita Ha Ti Que, allora notò come durante il viaggio non aveva visto donne incinta e tantomeno una donna sorridente. La verità allora apparve sconcertante: non esisteva nessuna associazione delle donne, questa fu creata ad hoc per la visita per far vedere, che a differenza della realtà, la donna cambogiana viveva in condizioni disperate, come tutta la società.[47]
Non c’era persona cambogiana ormai, contadino, intellettuale, donna, e gli stessi Khmer rossi che non si potesse considerare vittima.
Jean Lacouture, storico e giornalista francese, all’epoca inviato de Le Monde per seguire la guerra in Vietnam, definì questo un “autogenocidio”, la salute compromessa dei bambini che dai dieci anni venivano gettati nelle risaie, ammalandosi e morendo nel giro di pochi mesi e la condizione della donna, che dopo poco perdeva il ciclo mestruale, stava bruciando intere generazioni. Il delirio ormai era totale. Thioun Prasith, a Parigi, rifiutò delle medicine che gli erano state offerte da amici, perché non si doveva scendere a nessun compromesso con i non-Khmer: “meglio vedere morire a migliaia i bambini della Cambogia, piuttosto che dover qualcosa agli europei.”[48]
[1] Università degli Studi di Milano-Bicocca <http://www.quadernimaterialisti.unimib.it/?p=1660,> ultima visione: 21 settembre 2012
[2] B. Kiernan, Genocide and Democracy in Cambodia: The Khmer Rouge, the U.N., and the International Community, New Haven , Ben Kiernan Editor 1999, p. 33.
[3] Ivi, p. 35.
[4] Ivi, p. 37.
[5] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, il terrore dei Khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano, Santacroce sull’Arno (Pisa), Jaka Book 2004, p. 18.
[6] B. Kiernan, Genocide and Democracy in Cambodia, cit., p. 34.
[7] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, il terrore dei Khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano, Santacroce sull’Arno Pisa, Circolo il Grandevetro/Jaka Book 2004, pp. 27-29.
[8] Ivi, p. 42.
[9] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, cit., p. 34.
[10] Ivi, p. 43.
[11]J. Lacouture, Cambogia I signori del terrore. Una rivoluzione diventata genocidio, Firenze, Sansoni Editori Nuova 1978, p. 111.
[12] B.Tho Nguon e D. Siragusa (a cura di), Cercate l’Angkar, cit., p. 55.
[13] Aeroporto Internazionale di Phnom Penh, gli altri due sono a Siem Reap e a Sihanoukville.
[14] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi. Ripensamento di un'illusione, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati 2004, p. 38.
[15] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi, cit., p. 44.
[16] P. Short, Pol Pot: anatomia di uno sterminio, a cura di Milano, Rizzoli 2008, p. 418.
[17] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi, cit., p. 53.
[18] O.T. Hoeng, Ho creduto nei Khmer rossi, cit., pp. 55-59.
[19] Ivi, p. 113.
[20] Il pellegrinaggio alla Mecca: è il quinto pilastro dell'Islam ed è un atto obbligatorio, un evento importante nella vita del credente, rappresentando un mezzo di purificazione <http://www.sufi.it/islam/hajj.htm>, ultima visione: 04 ottobre 2012.
[21] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979: Race, idéologie, et pouvoir, Paris, Gallimard 1998, p. 311.
[22] D. Rasy, Khmer representation at the United Nations : a question of law or of politics?, London, Douch Rasy Editori 1974, p. 253.
[23] B. Kiernan, How Pol Pot came to power, a history of communism in Kampuchea, 1930-1970, Ann Arbor MI, Verso Book 1985, p. 387.
[24] F. Pounchaud, Cambogia: Year Zero, Londra, Allen Lane 1978, pp. 154-155.
[25] Bulletin of concerned asian scholars <http://criticalasianstudies.org/assets/files/bcas/v20n04.pdf>, ultima visione: 21 settembre 2012.
[26] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., pp. 353-354.
[27] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., p. 360.
[28] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., pp. 361-362.
[29] N. Sihanouk, La mia guerra contro la CIA, Milano, Jaka Book 1972, p. 144.
[30] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., p. 365.
[31] P. Short, Pol Pot, cit., p. 479.
[32] L.Hung e H. Liu Yuan (a cura di), Cina: storia, società e tradizioni, arte e cultura, religione e filosofia, Bologna, Edizioni Pendragon 2000, p. 33.
[33] T.Terzani, Fantasmi Dispacci dalla Cambogia, Milano, Longanesi 2008, p. 149.
[34] P. Short, Pol Pot, cit., p. 480.
[35] Ivi, p. 482
[36] Traduzione in italiano del regolamento del carcere che si può trovare nel giardino dell’edificio del Tuol Sleng, oggi Museo della Memoria.
[37] M. Del Corona, Cattedrali di cenere, Torino, EDT srl 2005, p. 15.
[38] R. Panh , S-21 La macchina di morte dei Khmer Rossi, Milano, O barra O Edizioni 2004, p. 90.
[39] Ivi, p. 89.
[40] R. Panh , S-21 La macchina di morte dei Khmer Rossi, cit., p. 64.
[41] J. Lacouture, Cambogia I signori del terrore, cit., p. 94.
[42] P. Short, Pol Pot, cit., p. 489.
[43] M. Del Corona, Cattedrali di cenere, cit, p. 25.
[44] Dall'articolo Il boia di Pol Pot"Chi entrava doveva morire" di V.Pellizzari da La Stampa del 10 febbraio 2008 <http://www1.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200802articoli/29981girata.asp>, ultima visione: 22 ottobre 2012.
[45] M. Del Corona, Cattedrali di cenere, cit, p. 25.
[46] N. Ray, G. Bloom, e D. Robinson (a cura di), Cambogia, Torino, EDT srl 2011, p. 184.
[47] B. Kiernan, Le Génocide au Cambodge, 1975-1979, cit., pp. 187-192.
[48] J. Lacouture, Cambogia I signori del terrore, cit., p. 96.